19 ottobre 2010

TRADUZIONI QUASI IMPOSSIBILI


Dopo aver letto certe opere di Erri De Luca, una delle quali ("Morso di luna nuova", un racconto per voci in tre stanze.) scritta in napoletano, mi sono fissata che il napoletano lo dovrebbero conoscere tutti nel mondo. Io ho frequentato assiduamente dei “madre lingua” per un periodo piuttosto lungo o almeno lungo abbastanza da farmi percepire la gente dietro alle parole e la filosofia di vita dietro alla gente. Che poi alla fine la stessa cosa mi è successa con l’inglese. Quello addirittura lo avevo studiato e già lo conoscevo prima di andare in America, di viverci per quattro anni e di capire che dietro all’inglese americano ci sono gli americani e dietro agli americani c’è tutto uno stile di vita made in IUESSEI. E, riemergendo da entrambe le immersioni sociolinguistiche, sia l’inglese americano che il napoletano non mi son sembrati più quelli incontrati durante la mia precedente vita in superficie.
Dunque, se la lingua la fa la gente, quando la gente cambia anche la lingua cambia e forse ognuno parla un poco come è.
Oltretutto ogni lingua ha un suono speciale, che pure se non si capisce nemmeno una parola, la melodia lancia lo stesso un messaggio comprensibile. Per esempio, in preda a quella mia fissazione di tradurre il napoletano in inglese, ho cercato un termine accettabile per esprimere “zumpaperete”. Impresa ardua, senza ombra di dubbio. D’altronde, sono quasi certa che moltissimi italiani non sappiano cosa voglia dire “zumpaperete” e, anche chi lo sa, difficilmente riuscirà a tradurlo in meno di un paragrafetto. Eppure, da come suona “zumpaperete”, che non te lo aspetti che chi ti chiama ‘na zumpaperete” non ti sta facendo esattamente un complimento? Sì, te lo aspetti. E invece, inaspettatamente, ho trovato la traduzione inglese di “zumpaperete”: “fart jockey”. Letteralmente, “fantino della scorreggia”; secondo l’Urban Dictionary, una persona disprezzabile, un idiota. Mi sono immediatamente esaltata. Stentavo a crederci. E continuavo a chiedermi come quell’analogia potesse realmente esistere. Un immigrante napoletano l’aveva coniata? O ‘sti “zumpaperete” hanno sempre campato ovunque, checché li si chiamasse “fantini della scorreggia”, con un fairplay tutto anglosassone? Tuttora non conosco la risposta, ma per me “zumpaperete” continua a suonare meglio di “fart jockey”.


20 settembre 2010

I BOERI

Ho letto un post nel blog di Paolo Nori, nel quale lui parlava dei boeri, “Quei cioccolatini al liquore avvolti in una carta metallizzata che dentro la carta c’era una scritta del tipo Hai vinto un boero, o Hai vinto due boeri, fino a cinque...”
Tra le due, mia sorella era quella dei boeri. Lei ne vinceva sempre molti. Io non li compravo, invece. Credo che non mi piacesse l'idea di non trovare la scritta HAI VINTO. E poi, se anche li vincevo, mi toccava regalarli, dato che io son sempre stata facile ad ammalarmi per via del cibo che non fa per me. E con due boeri di fila, di sicuro mi veniva il mal di pancia. Con tre, forse anche la febbre. Però ogni tanto mia sorella mi regalava uno dei suoi e io lo gustavo molto, sia perché era proprio buono sia perché non mi era toccato subire tutta quella trafila del vinco-nonvinco-esevincoachidoiboeri.
Avrei dovuto capire dai boeri che io non vado bene per quel tipo di catene del consumismo.
Eppure una volta, forse l'unica volta in vita mia, ho messo da parte tre involucri di kinder bueno da spedire. Li ho messi via per mia sorella, che a lei queste sfide alla fortuna son sempre piaciute, senza nemmeno controllare che cosa si vincesse. Poi, dopo un po', mi ha telefonato mia sorella per dirmi che avevo vinto un cellulare, con quegli incarti di kinder bueno là. Io pensavo che mi prendesse in giro, invece no. E così, alla fine, ho avuto anche io il mio primo telefonino (che poi –ino non lo era affatto). Vinto coi punti. Mi domando se ci siano state o ci saranno mai conseguenze tipo il mal di pancia causato dai boeri, ma meno evidenti.

26 luglio 2010

BEATO UGO

Oggi è la festa di Sant’Ugo, il patrono del paese dove sono nata. Lui non è un santo famoso. Anzi, non lo conosce nessuno. E a dire il vero non è neanche santo. No, infatti è “beato”, Beato Ugo.
Io beato lo preferisco a santo. Per dire, se uno si rivolgesse a me esclamando “Santa te!!!” penserei “Mi sta prendendo in giro o almeno vuol fare dell’ironia”. Ma se uno mi dicesse “Beata te!!!”, allora sarei portata a credere che qualcosa che mi riguarda sia davvero bello o che comunque potrebbe esserlo. E questa mia preferenza per un appellativo piuttosto che per l’altro provo ad esprimerla un po’ meglio con le seguenti due frasi:
1. Una che è beata vuol dire che sta bene.
2. Una che è santa...che vuol dire?
Io mi son sempre rallegrata a sapere che Beato Ugo sia stato scelto come patrono del mio paese natale, un po’ perché mi pare un protettore che se ti rivolgi a lui di sicuro l’hai scelto per un motivo e non perché lo conoscono tutti, un po’ per quella questione del beato.
E poi, uno che lo chiami “Beato Ugo” è quasi ovvio che ti stia simpatico. O almeno è ovvio per me.
Penso che se Troisi fosse ancora vivo, dopo San Gennaro, sceglierebbe Beato Ugo.

21 febbraio 2010

Origliando

...
“Lei si arrabbia sempre; è sempre incazzata e finisce per prendersela con me...continuamente.”
“Ah sì?”
“Sì. Una volta mi ha detto che sua nonna è buona, sua mamma è cattiva e lei è buona come sua nonna.”
“A me ha detto che sua madre ha un...sindrome bipolare.”
“Che cos’ha?”
“Un sindrome bipolare...che certi giorni è felice e altri giorni è arrabbiata.”
“Ah, è lunatica!!!”
“Sì, ma per un sindrome.”
“Io non sopporto quelli che ti raccontano tutte le loro cose drammatiche e ti vogliono far sentire male.”
...
Questo è un dialogo che oggi ho ascoltato in giro, per caso. Due adolescenti parlavano tra loro; una non era italiana.